L’arte della doratura nell’antichità

Le civiltà più antiche avevano già una padronanza straordinaria dell’arte della doratura: lo testimoniamo la raffinatezza delle decorazioni in foglia d’oro dei sarcofagi e degli arredi realizzati nell’Egitto dei faraoni e di quelle con cui nell’antica Cina si ornavano tessuti e manufatti di legno e terracotta.

Più fonti attestano la produzione di foglia d’oro in Egitto prima della V Dinastia e documentano la perizia tecnica raggiunta dai battiloro durante la XII Dinastia (1991-1786 a.C.) quando riuscivano ad assottigliare le lamine fino a 1/1000 mm.

I Greci decoravano con la foglia d’oro le sculture di legno, pietra e marmo. Omero, nell’Odissea, descrive il palazzo di Menelao come “scintillante d’oro” e pieno dello “splendore del sole e della luna” e attribuisce a quello di Alcino porte d’oro, stipiti di argento e statue canine dorate e argentate “immortali e senza vecchiaia in eterno”. Diodoro Siculo racconta invece che il tempio di Diana a Efeso era interamente decorato con lamine d’oro. In entrambi gli autori risulta evidente il valore simbolico dell’oro: impiegato sia nelle residenze private che nei luoghi di culto in nome della sua incorruttibilità, rimanda immediatamente alla sfera del divino e dell’eterno.

In età ellenistica, per dorare i metalli i greci utilizzavano uno speciale processo a fuoco con amalgama di mercurio. Questo espediente, sperimentato per la prima volta in Cina, è rimasto di fatto la tecnica più utilizzata fino al 1800.

I Romani impiegavano ampiamente la doratura per far splendere templi e palazzi pubblici e privati. L’analisi di numerosi reperti dell’epoca dimostra che le sottili lamine di oro (fuso in una lega al 10% di argento) venivano applicate su una base preparata con polvere di gesso o marmo e colle di origine animale, non troppo diversamente da quanto fanno oggi gli artigiani doratori.

Nel 55 d.C. l’imperatore Nerone fece ricoprire d’oro la costruzione in pietra del più importante teatro di Roma (il teatro di Pompeo) per mostrare la potenza del suo impero a Tiridate, re d’Armenia.

Plinio descrive una Roma adorna di edifici pubblici e privati coperti di lamine d’oro scintillante e nella sua Naturalis Historia racconta: “I soffitti che ora si coprono d’oro anche nelle case private sono stati dorati per la prima volta in Campidoglio dopo la distruzione di Cartagine. Di lì la doratura è passata alle volte e alle pareti che sono anch’esse ornate come vasi”. Questa testimonianza è importante perché spiega che la pratica di dorare le superfici non riguardava solo gli edifici pubblici ma anche quelli privati.

Quanto ai battiloro, ai quali si deve la materia prima di tanto splendore, gli storici greci e latini parlano a più riprese della loro maestria. In latino l’artigiano che produce la foglia d’oro viene associato alla figura dell’orefice e denominato aurifex bractearius. Plinio racconta che con un’oncia d’oro si realizzavano circa 750 foglie. Le fonti storiche sul mestiere del battiloro nell’antichità sono in realtà frammentarie e discontinue. Un aiuto per comprendere come avvenisse la produzione della foglia d’oro ci arriva dalla letteratura tecnica dell’VIII secolo d.C. che, come è stato dimostrato da numerosi studi, attinge a piene mani da fonti molto più antiche, riconducibili all’entourage di sacerdoti ed alchimisti egiziani del tardo ellenismo. Tra questi testi è particolarmente prezioso il Codice Lucchese 490 che racconta tutti i passaggi dell’assottigliamento della foglia a partire dal lingotto: spiega che i nastri d’oro venivano battuti – bagnati d’oro – tra lamine di rame e ci informa che con un’oncia di oro bizantino e un’oncia di argento puro si producevano 1028 foglie.